Informazione e dialogo interreligioso
Il Circolo della stampa ha scelto il Rotary club di Copparo per il suo debutto ufficiale, ospite di un’importante serata – lunedì 3 aprile scorso – dal titolo: “Comunicazione e dialogo interreligioso”. Il presidente del Circolo Andrea Ghisellini ha introdotto l’argomento, ricordando le regole ed i comportamenti che i giornalisti debbono osservare per fornire una corretta informazione ed ha poi illustrato scopi ed obiettivi della neonata associazione. Il vicepresidente Simonetta Savino ha quindi preso la parola per sottolineare i problemi legati alla formazione del giornalista, soffermandosi sulla necessità di superare pregiudizi e faziosità per riuscire a comprendere, nel rispetto reciproco e con una scelta condivisa, voci e ragioni di culture diverse dalla nostra.
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Le regole per un buon giornalismo
Il nostro Circolo è nato lo scorso febbraio per iniziativa di un gruppo di giornalisti ed operatori dell’informazione di Ferrara e provincia con lo scopo di creare un luogo dove incontrarsi e discutere degli aspetti, dei problemi e delle prospettive della nostra professione. La città, a dire il vero, ha già avuto un suo Circolo della Stampa: una piccola schiera di giornalisti lo aveva infatti fondato 112 anni fa, il 22 dicembre 1895. Tra gli iscritti c’erano i redattori dei più importanti giornali di allora, come la Gazzetta Ferrarese (il primo quotidiano cittadino ad ospitare, fin dal 1848, servizi di cronaca locale) o come La Domenica dell’operaio, il settimanale della Curia, fondato nel 1895.
Tra alterne vicende il Circolo sopravvisse a due guerre mondiali fino al 1952, quando al Circolo dei Negozianti i giornalisti della Gazzetta Padana costituirono l’Associazione Stampa Ferrara, con l’obiettivo di tutelare gli interessi della categoria e di vigilare sul rispetto della libertà di stampa, in conformità con i principi della neonata Costituzione della Repubblica. A quell’epoca non esisteva ancora l’Ordine dei giornalisti: fu proprio Ferrara ad ospitare, l’11 marzo 1956 all’albergo San Giorgio, una delle primissime assemblee nazionali destinate a gettare le basi per la sua istituzione, che avvenne, con la cosiddetta legge Gonella, nel febbraio 1963.
Tutelare la professione, ma non solo. I giornalisti ferraresi, infatti, sono stati sempre in prima fila anche per quanto riguarda la promozione e la valorizzazione del patrimonio culturale, artistico e storico della città: grazie anche al loro impegno sono stati recuperati, per esempio, la bella chiesa di San Giuliano in piazza della Repubblica, detta appunto “dei giornalisti”, o valorizzati – con incontri e convegni – luoghi della città poco conosciuti o trascurati, dopo la tragica parentesi della guerra mondiale, come le sale del Castello, la palazzina di Marfisa d’Este o il palazzo dei Diamanti.
E’ a quello spirito che guarda oggi il rinato Circolo della Stampa. La sua missione è innanzitutto quella di far conoscere meglio alla città il ruolo e il lavoro dei mass media. Ma non solo. Il Circolo sarà aperto infatti a tutti coloro (persone, enti, associazioni ed istituzioni) che ne condivideranno i progetti e gli obiettivi. E’ proprio questo il tratto distintivo, l’aspetto nuovo della personalità del Circolo: tra le sue file, infatti, potrà impegnarsi anche chi, non essendo giornalista, deciderà di aiutarci a crescere e fare meglio il nostro lavoro. Il terreno su cui impegnarsi sarà soprattutto quello della formazione e della cultura: in una società multiforme e ricca di transizioni complesse e spesso così difficili da cogliere e governare, come è oggi la nostra, non si può certo immaginare che si possa essere buoni giornalisti (cioè giornalisti preparati), senza essere prima di tutto buoni cittadini, cioè cittadini preparati.
E il tema di questa sera Comunicazione e dialogo interreligioso è senza dubbio tra quelli che richiedono la massima attenzione e la massima preparazione, non solo da parte dei mass media e dei loro operatori. Esso coinvolge infatti il nostro modo di vivere, la struttura della nostra società e riguarda anche la sfera della nostra emotività, la nostra privacy, le nostre certezze ed i rapporti con i nostri simili. Non occorre essere giornalisti di professione per accorgersi che il problema del dialogo tra religioni o culture differenti, l’informazione che lo riguarda, sulla carta stampata e sui media è spesso valutata in modo inadeguato o carente, o – peggio – è orientata in modo da non consentire il formarsi di un’opinione completa e, quindi, pluralista.
C’è sicuramente informazione religiosa, cattolica e non: dalle notizie che riguardano la vita della comunità, agli orari delle funzioni religiose o le feste dei patroni, i notiziari – specie quelli locali – sono ricchi di informazioni. Ma, eccezion fatta per i mezzi d’informazione praticanti (penso all’Avvenire, o all’Osservatore Romano, naturalmente più sensibili al tema dei rapporti con le altre comunità religiose), il più delle volte l’informazione religiosa (e anche quella interreligiosa) si ferma qui. Per molti media anche i soli termini interreligioso e interculturale sono il più delle volte espressioni semisconosciute, o vuote, oppure da utilizzare soltanto quando la cronaca (meglio se si tratta di quella nera) lo richiedano.
Si potrebbe obiettare: forse c’è scarsa informazione perché in effetti c’è poco dialogo interreligioso. Un’affermazione teoricamente sensata, ma che forse non ci lascia del tutto soddisfatti. Perché nella pratica non possiamo ignorare che i giornali, i mass media, nel bene e nel male, non rappresentano che una parte, spesso minoritaria, dell’opinione pubblica, non ne rispecchiano che parzialmente bisogni ed attese e che molto spesso non si sforzano di comprendere fino in fondo aspetti della nostra società e della nostra vita, che invece andrebbero discussi e approfonditi meglio, senza pregiudizi o faziosità.
Padre Miguel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in visita qualche anno fa a Giakarta in Indonesia, il paese con la più forte maggioranza musulmana del mondo, ha detto: “Oggi il peggior nemico del dialogo interreligioso è la paura: la paura che deriva dalla scarsa conoscenza e comprensione reciproca fra le comunità, le culture ed i gruppi religiosi. Per questo è ora di smetterla di usare termini come maggioranza e minoranza, come invita papa Francesco: in quanto esseri umani siamo tutti fratelli”. Un concetto poderoso, la cui attuazione pratica non è certo semplice oggi, né lo sarà forse domani. Ed è un concetto che non spetta sicuramente ai giornalisti, o comunque non solo a loro, mettere in pratica. Ma spettano sicuramente ai giornalisti almeno due doveri, che sono poi facce della stessa medaglia e che valgono, naturalmente, per l’intero campo di attività della professione.
Il primo, personale e deontologico, riguarda il dovere di dare sempre comunque un’informazione la più precisa e affidabile possibile, fondata sul diritto della persona di formarsi un’opinione libera e completa e sul diritto riconosciuto, della comunità, di essere libera e pluralista. Una buona e corretta informazione, diceva Luigi Einaudi, fornisce ai cittadini gli ingredienti, non avariati, per deliberare, per essere più responsabili e liberi. Un giornale non è un partito o una chiesa: se fornisce informazioni amplificate o sottostimate, chiedendosi prima a chi giovano, non fa un buon servizio alla libertà di stampa.
Il secondo dovere, inevitabilmente intrecciato al primo, è quello che obbliga l’operatore dell’informazione ad essere preparato e qualificato, a studiare la società che lo circonda, a sforzarsi di comprenderne i problemi e le contraddizioni, ascoltandone le differenti voci, per poter poi spiegare al proprio pubblico quello che ha visto e sentito. In altre parole a stare, come si dice in gergo, il più possibile “sul campo”. Non si può raccontare agli altri qualcosa che non si è capito o voluto capire, amenochè non lo si faccia in malafede o per interesse.
E’ davvero un impegno non facile, visti anche i frenetici ritmi dei mass media e la tendenza a fare spesso, di tutto, un calderone di luoghi comuni e banalità o, peggio, a scegliere le notizie in base ad una scala di gradimento, di audience o di share. Un trend aggravato – per quanto riguarda la rete – dalla mancanza di regole condivise che riescano nel non facile compito di mettere d’accordo privacy e sicurezza, libertà di accesso e di opinione, garantendo al tempo stesso adeguati controlli contro fanatismo e intolleranza, o anche solo contro il proliferare delle cosiddette fake news. D’altro canto non sfugge a nessuno come proprio il web, più della carta stampata, proprio per la sua immediatezza e velocità di contatto, sia un formidabile strumento di comunicazione, di aggiornamento e diffusione di sapere e tecnologie, e favorisca quindi il confronto ed il dialogo tra persone e culture.
Perché solo attraverso il dialogo ed il confronto le persone possono capire e e conoscersi meglio. E forse, come ha detto padre Guixot, anche per aiutare a sconfiggere, almeno un po’, le nostre paure.
Andrea Ghisellini
Una scuola laica per liberi cittadini
Prima di affrontare il tema del rapporto tra giornalismo e cultura interreligiosa, è opportuno riflettere sul fatto che tutti viviamo immersi nell’informazione, tradizionalmente essenza stessa del giornalismo ma oggi declinata in numerose e diverse forme: radio e televisione, le più antiche, ma ancor più prepotentemente i social e tutto ciò che viene dal web, 24 ore su 24; questi ultimi consentono e incoraggiano la partecipazione diretta dei fruitori trasformandoli in protagonisti di un infinito forum di commenti, spesso di basso livello. In questo contesto è assolutamente necessario, come cittadini responsabili, attrezzarsi di buona volontà e di competenze critiche che consentano di orientarsi all’interno di questa super offerta mediatica e dunque di ricavarne informazione, perché, si sa, ad ogni notizia da sempre corrisponde un punto di vista.
Il concetto di cultura interreligiosa come conseguenza necessaria e auspicata del dialogo interreligioso, si è proposto con urgenza ai mass media, e dunque anche al giornalismo tradizionale, in particolare negli ultimi dieci anni, da quando cioè il fenomeno dell’immigrazione dai paesi islamici del Sud del Mediterraneo ha coinvolto sempre più l’Italia. Prima di questo nuovo corso storico, almeno in Italia, la presenza di comunità altre (ebrei, cristiani ortodossi, protestanti, buddisti) rispetto alla preponderante comunità cattolica, non aveva provocato problemi di convivenza, lasciando ciascuno a coltivare il proprio orticello religioso ben distinto da quello, comune a tutti, della vita civile; né aveva reso necessaria la conoscenza delle specifiche differenze nelle tradizioni culturali/religiose di ciascuna comunità. Ma con l’arrivo degli immigrati dell’Islam che fa tutt’uno di cultura religione e stato, la situazione è completamente cambiata. L’ignoranza dell’altro genera paura, la paura dell’altro, del diverso che viene percepito come una minaccia destabilizzante sia sul piano morale sia su quello politico ed economico. Da ciò la necessità di difendersi nel modo ritenuto più semplice e cioè chiudendosi in un’esasperata autoreferenzialità senza tuttavia ottenere risultati soddisfacenti.
Come deve muoversi il giornalista in questa situazione? Come dovrebbe fare sempre: favorendo la conoscenza e dimostrando di possedere un’ineccepibile onestà intellettuale, attraverso inchieste, interviste, recensioni di saggi su tali temi. Di questi argomenti si occupa con la consueta chiarezza di stile, Roberto Saviano nell’articolo intitolato “Vietare il velo si può. E il crocifisso?”, pubblicato su L’Espresso del 26 marzo scorso, di cui riportiamo il link
http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2017/03/22/news/vietare-il-velo-si-puo-e-il-crocifisso-1.297681
Da questo testo vorrei citare alcuni brevi passaggi significativi. Dopo aver dichiarato che per fare cronaca sacrosanta e preziosa non bisogna parlare alla pancia, all’emotività, e che i social lui li usa per ragionare e per studiare ciò che accade … per individuare un tema su cui riflettere, da approfondire e su cui stimolare un dibattito, passa a parlare della sentenza della Corte di Giustizia dell’UE che consente alle aziende private di vietare alle dipendenti musulmane di indossare il Hijab (il velo) e che, secondo Saviano, dimostra che le nostre paure sono proiezioni degli atti che siamo soliti compiere ai danni di altri. Egli si domanda perché il crocifisso che dal 1926 campeggia in tutte le aule delle scuole pubbliche, è simbolo di pace e il velo può essere vietato? Avere due pesi e due misure non ci tutela, ma ci mette paura perché ci fa capire che possiamo diventare noi le vittime. Il rispetto delle identità religiose non può conoscere discriminazioni né nel pubblico né nel privato perché se accettiamo che ciò avvenga, vivremo sempre con il timore che possa capitare a noi ciò che ora infliggiamo agli altri. Anche per Saviano sono dunque fondamentali i due concetti di conoscenza e onestà intellettuale, che non significa necessariamente collocarsi super partes, ma sostenere il proprio punto di vista in un contesto chiaro, completo e non tendenzioso. Dalla necessità della pratica di una deontologia professionale corretta è nata nel 2008 la cosiddetta Carta di Roma (Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti) incentrata sui temi della dignità dello straniero e della multiculturalità.
Nella cittadina di Erba nel 2006 furono trucidate quattro persone: nonna, madre e bambino di due anni e una vicina di casa testimone per caso; subito fu sottoposto ad un linciaggio mediatico come presunto esecutore della strage, Azouz Marzouk, tunisino, musulmano, marito e padre di due delle vittime. Ma la verità era un’altra, del tutto diversa, emersa fortunatamente dalla testimonianza di un altro testimone sopravvissuto al massacro. Il comportamento intollerabile del giornalismo italiano indusse l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati (Unhcr) a chiedere ai direttori di testata e alle rappresentanze dei giornalisti di avviare un confronto. Solo Fnsi e Ordine dei Giornalisti raccolsero la sollecitazione e tra aprile e giugno 2008 fu formulato il testo della Carta di Roma a cui si dovrebbero attenere tutti i giornalisti.
Testo ineludibile di partenza e principale riferimento deontologico è stata la Carta dei Doveri del 1993 come pure l’art. 2 della Legge istitutiva dell’Ordine che introduce come criterio deontologico fondamentale il rispetto della verità sostanziale dei fatti che si persegue attraverso alcune pratiche basilari quali:
- adottare termini giuridicamente appropriati (immigrato, extracomunitario, rifugiato non sono sinonimi); per questo motivo alla Carta di Roma fu allegato un piccolo glossario;
- evitare comportamenti superficiali anche attraverso improprie associazioni di notizie
- servirsi di un metro omogeneo e coerente di valutazione dei fatti;
- esercitare il diritto /dovere di cronaca evitando filtri o censure preventive, e offrire invece un panorama completo in un contesto chiaro e esauriente attraverso la diffusione anche di tabelle statistiche sebbene attenuino il tasso emotivo delle cronache.
Questo livello di pratica professionale si può raggiungere solo attraverso una seria e continuativa formazione dei giornalisti, il monitoraggio costante dell’informazione dei giornalisti e del loro aggiornamento culturale; e infine il rapporto con organizzazioni che lavorano sull’immigrazione e sul dialogo interreligioso. Tutto quanto abbiamo detto fin qui è diretto agli adulti di oggi, a coloro che dovranno imparare a modificare una mentalità consolidata da una lunga pratica di vita con orientamenti politici, etici, morali magari opposti all’apertura, all’accoglienza, alla flessibilità; e sarà un’operazione lunga, faticosa e non sempre destinata al successo, ma non è possibile fare altrimenti. Se guardiamo al futuro, alle nuove generazioni ci accorgeremo che sono già in atto nel nostro Paese profondi cambiamenti che fanno ben sperare, anche se persistono sacche d’intolleranza soprattutto là dove mancano conoscenza (assenza d’istruzione) e onestà intellettuale (presenza di pregiudizi e luoghi comuni), e dove addirittura domina la pratica della violenza. Fatiche di adattamento e persistenza d’intolleranza si possono evitare all’origine solo attraverso la pratica di una buona scuola (nessun riferimento alla riforma del governo Renzi), una scuola pubblica autenticamente laica (quella privata tenuta da religiosi ha ovviamente un orientamento inequivocabile), senza simboli religiosi di alcun tipo, aperta all’insegnamento non solo della religione cattolica ma delle religioni, delle tradizioni altre dei nuovi e dei vecchi abitanti del nostro Paese; insegnamento che dovrà essere declinato nel modo più appropriato al grado di scuola, cominciando dagli studenti più piccoli, affinché il più presto possibile vivano come normalità quello con cui noi oggi fatichiamo a convivere. Questa impostazione non priva i cattolici del contatto scolastico con la propria religione, ma li arricchisce di quella disponibilità affettiva e psicologica che possono rafforzare frequentando la propria parrocchia, luogo eletto della catechesi.
Una scuola laica, per conoscenza e onestà intellettuale, è in grado di formare cittadini liberi e naturalmente anche bravi futuri giornalisti.
Simonetta Savino
Sul medesimo argomento ospitiamo anche l’intervento del collega Andrea Musi, socio del Rotary Club di Copparo e componente del consiglio direttivo del Circolo della Stampa Ferrara.
Evitiamo che la paura ci trasformi
Cosa sta facendo il giornalismo per agevolare la reciproca conoscenza fra le varie religioni? La risposta non può che essere, purtroppo, autocritica. A parte la tradizionale attenzione per le vicende della Chiesa Cattolica, il giornalismo italiano non sta facendo molto per fare conoscere le particolarità degli altri culti, né per illustrare le cose che accomunano e che distinguono le varie fedi e le varie pratiche religiosi. In questo senso si fa davvero poco, certamente non abbastanza.
Sulle cronache locali è abbastanza comune leggere ogni settimana un commento o la presentazione delle pagine del vangelo che verranno citate nella messa cattolica domenicale. Ed in genere l’attenzione per le attività delle varie parrocchie è spesso intercettata dai cronisti locali, sia della città che dei singoli centri della provincia. Ma chi ha mai letto commenti sulle predicazioni che si tengono ogni settimana nelle moschee, o nelle sinagoghe, o nelle chiese ortodosse, o in quelle protestanti? Idem in televisione dove non mancano spazi sui primari canali nazionali (e su TV 2000 la rete dei vescovi italiani) per le sante messe, gli angelus del Papa, e per tante altre trasmissioni di attualità interpretata in chiave cattolica. Solo da alcuni anni sono stati creati spazi (per altro molto ben confezionati) per la cultura e la religiosità ebraica e protestante. Non mi risulta – ma forse sono male informato – che siano state assunte analoghe iniziative per le comunità islamiche presenti nel nostro paese.
Questa assenza di efficace pluralismo religioso nell’informazione si traduce poi nella non-conoscenza che produce poi incomprensioni, diffidenza e paura. Ed è proprio degli effetti di questa paura, illustrandone solo gli effetti e quasi mai analizzandone le cause, che si concentra il principale impegno dell’informazione. Paura declinata – alle nostre latitudini – principalmente come islamofobia, senso di insicurezza nei confronti dell’integralismo terrorista, e così via.
Le pagine dei quotidiani e le news dei telegiornali sono piene di articoli, analisi e purtroppo sanguinosi fatti concreti sulla paura dell’integralismo e del terrorismo islamico. Ma a proposito di paura dovremmo cominciare a provarne anche per noi stessi, per quello che ci sta accadendo interiormente, per quello che rischiamo di diventare, proprio in relazione a questo sempre più insinuante effetto del terrorismo di matrice religiosa nelle nostre coscienze.
Si notano già sintomi preoccupanti negli stessi circoli cattolici. Personalmente seguo costantemente (tramite le rassegne informatiche) tutto ciò che viene prodotto da blog e siti cattolici (di associazioni, confraternite, ecc.). E noto da tempo una forte recrudescenza di vero e proprio integralismo cattolico, con accenti sempre più marcati di anti-islamismo, talvolta anche di antisemitismo. Si tratta di espressioni ancora larvali, ma purtroppo in crescita. E in questo fremito di neo-integralismo cattolico si nota anche il riflesso di posizioni decisamente contrarie alle aperture ed all’apostolato di papa Francesco.
Altri fenomeni preoccupanti giungono da oltre oceano, con i cosiddetti “malpancisti” di Donald Trump. Negli Stati Uniti finora l’influenza religiosa sul voto presidenziale non era mai stata tanto incisiva. Ma già da alcune tornate elettorale i candidati cercano con sempre maggior insistenza l’appoggio di determinate comunità religiose, quando non ne sono la diretta emanazione. Ebbene in questo contesto l’ascendente dei gruppi evangelici più “integralisti” si fa sempre più sentire.
Fin qui tutto rientrerebbe nel cosiddetto gioco democratico dove ognuno gioca le sue carte e le sue rappresentanze. Ciò che inquieta è semmai la crescente “durezza” di questo integralismo di marca cristiana (che ha come effetto speculare la crescita di quello islamico), che spacciandosi per “purezza” spirituale resuscita atteggiamenti di contrasto, quasi di sfida, con le credenze, gli usi e costumi degli “altri”.
Un contrasto che appare talvolta fin troppo “muscolare”, almeno nelle sue espressioni più colorite. Tutto questo si accompagna ad una crescente diffusione della credenza nella cosiddetta Profezia del Raptor, cioè la profezia del rapimento, in base alla quale un gran numero di fedeli americani si aspetta che Dio alla vigilia dell’Apocalisse “rapirà” in cielo tutti i “buoni cristiani” della Terra, in corpo ed anima, sottraendoli allo strazio feroce dell’Armaggedon, l’ultima decisiva battaglia fra il Bene ed il Male (battaglia che secondo loro non ci sarà, dal momento che sulla Terra rimarranno solo i “cattivi” a godersi l’olocausto nucleare ed a distruggersi l’uno contro l’altro).
Il guaio di questa credenza, sempre più diffusa, è che in questo modo i cosiddetti buoni tenderebbero fatalmente a deresponsabilizzarsi sulle prospettive di una guerra nucleare, o di una catastrofe ecologica o climatica indotta dall’uomo. Tanto loro non la dovrebbero comunque subire, divertendosi a guardarla al massimo dall’alto, dopo essere stati graziati e rapiti da Dio. Un po’ come Tertulliano che, nei primi secoli del Cristianesimo, pensava dovesse essere uno dei principali divertimenti del Paradiso… cioè osservare laggiù le torture ed i supplizi dei dannati all’inferno.
La paura, non c’è che dire, divide. Mentre alla base di ogni insegnamento religioso, di qualunque religione, dovrebbero esserci, anzi ci sono, pietà ed amore. Il giornalismo dovrebbe esplorare proprio questo: i principi che uniscono, principi che sono molti di più di ciò che ci divide. Solo che non li conosciamo. Non sappiamo quanto il pensiero di ogni religione abbia fonti e connotati comuni. Spesso cambia solo il modo di pronunciarli. E come si può avere paura di un semplice problema di pronuncia?
In questi tempi si parla moltissimo di dialogo interreligioso. E le religioni indubbiamente si incontrano (per lo meno i loro esponenti più illuminati).
Benissimo. Ma non va dimenticato che uno dei protagonisti troppo spesso dimenticato di questi confronti è lo spirito laico delle democrazie occidentali. Solo uno stato veramente laico, solo i valori della laicità (che all’Occidente sono costati secoli di lacrime, sangue e roghi per emanciparsi dai gioghi teologici del passato), solo questi possono garantire reale cittadinanza ad ogni religione, rispettando anche quanti non si riconoscono in alcuna di esse (si stima che gli atei sarebbero già un terzo della popolazione), ma non è detto che abbiano altrettanto senso morale, ed una spiritualità magari più “umana” che trascendente.
Ma pur sempre una morale volta al Bene. Ed il massimo bene di tutti, credenti o meno, è sempre la Libertà, magari coniugata con Fratellanza, Uguaglianza, Giustizia, e, mai dimenticarselo, Amore.
Andrea Musi
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