“La Piê” sbarca in Terra Estense
Un cammino lungo quasi cent’anni
Magnifiche xilografie e il racconto di una Romagna tra novità e tradizione
Per quanto poco nota fuori dei confini regionali, una delle più antiche riviste italiane ancora in vita è «La Piê», nata a Forlì – cuore geometrico della Romagna – nel 1920: dunque una rivista veneranda, anche se una lunga pausa ha interrotto la sua storia: con l’accusa di non essere adeguata al sentimento nazionale del regime, le autorità fasciste di Forlì ne ordinarono la chiusura nel luglio 1933. Riaprì i battenti nel gennaio 1946, ed oggi è un bimestrale che si prepara a festeggiare il centenario del 2020. A tutt’oggi, nel momento in cui la rivista entra nell’86° anno di vita effettiva, i fascicoli pubblicati sono circa 550, per un totale di più di 25.000 pagine di materiali storici e iconografici: una vera enciclopedia umanistica della Romagna, o anche il «bollettino ufficiale della Repubblica Romagnola», come affermò in un elzeviro lo scrittore Francesco Fuschini: la redazione si è nel frattempo trasferita a Imola, dove la rivista è diretta dall’autore di queste righe. La sonorità rustica del titolo non rende giustizia alla sostanza delle pagine: «La Piê» nacque una sera del tardo 1919 quando alla “Sisa”, la villa nelle campagne forlivesi dello scrittore Antonio Beltramelli, si ritrovarono il padrone di casa e altri due scrittori, Aldo Spallicci e Francesco Balilla Pratella; il titolo della rivista fu ideato facendo riferimento al poemetto La Piada che Pascoli aveva composto nel 1909. La poesia canta l’antico pane azzimo di Romagna con tratti di malinconia: i fondatori vollero infatti alludere al messaggio umanistico che può affiorare dalla storia di una terra. La rivista ebbe insomma fin dall’inizio un fondo “intellettuale” che manifestò nello stile dei contributi: il criterio narrativo, da scrittori insomma, di illustrare i diversi aspetti della cultura regionale.
Il principale promotore della rivista fu Aldo Spallicci (1886-1973), pediatra, scrittore e senatore repubblicano nelle prime legislature del dopoguerra. Dotato di singolare vocazione letteraria, introdusse il rinnovamento del patrimonio culturale e artistico della Romagna, e lo fece mediante l’industriosa avventura della sua grande rivista, che del resto non proveniva dal nulla: tra 1911 e 1914 Spallicci aveva già diretto un simile esperimento, «Il Plaustro». Con la Grande Guerra, quella generazione fu trattenuta al fronte per anni e la vicenda poteva considerarsi chiusa, e invece Spallicci, appena congedato, volle ripartire con l’avventura pubblicistica e fondò «La Piê».
Il patrimonio delle sue migliaia di pagine attraversa storia e caratteri della regione mediante contributi di diversa natura: studi colti, articoli semplici, divagazioni, poesie, cronache, narrazioni. Materiale firmato da una vasta squadra di collaboratori, tra cui ottimi scrittori e studiosi locali: in prima linea lo stesso Spallicci e poi Luciano De Nardis, Rino Alessi, Rezio Buscaroli, Bruno Corra, Cesare Martuzzi, Marino Moretti, Alfredo Panzini, Giovanni Bacocco, Libero Ercolani, Piero Zama; ma anche storici del calibro di Delio Cantimori e Luigi Lotti, il grande medievista Augusto Vasina, l’italianista Mario Pazzaglia, il filologo Augusto Campana. Oggi la rivista ha conservato i caratteri d’origine e si profila come una sorta di circolo Pickwik di persone che nutrono il piacere della cultura, sempre con uno sguardo all’idea programmatica che Spallicci nutriva: raccontare una regione in maniera nuova e fresca, ma senza accantonare lo spirito della tradizione.
«La Piê» è stata, negli anni venti del Novecento, la sede italiana in cui è apparso il maggior numero di studi etnologici, tale per cui quasi ogni numero è imprescindibile. Ma se la ricchezza dei contenuti è innegabile, per un concorrere di circostanze «La Piê» diventò anche una delle principali sedi d’espressione di uno speciale ceppo di artisti: gli xilografi. Suo carattere tipico fu infatti l’incisione originale collocata, numero per numero, in copertina. Stampata inizialmente dallo stabilimento Luigi Bordandini di Forlì e, a partire dalla metà del 1920, dalla Tipografia Lega di Faenza, la rivista diventò presto il fulcro di un fermento artistico di grande vivacità.
La simpatia nutrita da Spallicci per l’incisione su legno giungeva dal fatto che, prima ancora di fondare la rivista, egli ornava i propri libri di incisioni e illustrazioni di gusto xilografico, sia per le copertine sia per semplici fregi interni, e ciò era reso possibile dall’esistenza in regione di un humus editoriale e tipografico generosamente fertile, anche in relazione alla vivacità dei movimenti politici e sociali. Attento fin dai primi passi all’arte delle incisioni, Spallicci non ebbe difficoltà a trovare collaboratori: una larga schiera di artisti era attiva in Romagna, ed alcuni erano da lui giudicati personalità d’eccezione, come Francesco Nonni, Giannetto Malmerendi, Antonello Moroni, Luigi Pasquini, Umberto Zimelli, Giuseppe Ugonia.
La vicenda xilografica delle prime annate della «Piê» prova che se la volontà iniziale fu quella di avere una copertina omogenea, si giunse infine alla scelta della copertina d’autore. La prima annata del 1920 si fregia della riproduzione zincografica della coperta per buoi, quella con cui nelle feste si drappeggiavano i bovini che trainavano i plaustri (i grandi carri dipinti della tradizione contadina romagnola): in tutti i numeri dell’anno l’immagine monocroma color ruggine è la medesima. Lungo il 1921, seconda annata, la copertina riproduce quasi sempre i grafismi delle tovaglie romagnole stampate a ruggine. Assieme alla decorazione dei carri, delle ceramiche popolari e delle vele della marineria adriatica, le coperte bovine e le tovaglie stampate agivano come uno dei principali punti di riferimento cui gli xilografi guardavano per ottenere stimoli iconografici. Osservando quelle copertine sembra proprio che Spallicci – affascinato dall’antica tecnica di stampa delle tele, per quanto più rozza rispetto a quella della xilografia – intendesse abbigliare simbolicamente la propria rivista con alcuni prodotti dell’artigianato romagnolo.
Dal 1922 – terza annata della rivista – cominciarono ad apparire originali xilografie policrome: nei primi tre numeri fu riprodotta una ghirlanda di roselline di Malmerendi, ma dal quarto numero apparvero scene rurali, oggetti della tradizione e decorazioni artigianali, con incisioni di profonda suggestione. Da quel momento ogni numero fu una festa per gli occhi: non si contano i pezzi di grande bellezza apparsi tra gli anni venti e cinquanta del Novecento.
Quando la rivista, dopo la soppressione del 1933, riprese le pubblicazioni nel 1946, Spallicci lanciò sul primo numero una stoccata all’uso di regime della carta lucida e delle fotoincisioni, come a dire che il gusto popolare nulla condivideva con quella maniera, e chiamò a raccolta tutti gli artisti «che sono rimasti fedeli alla Romagna e che non si sono lasciati traviare». Il richiamo risultò efficace e i migliori incisori del tempo si misero di lena a ricreare un mondo di immagini etnografiche. In altre parole: le copertine dei primi decenni della rivista sono pezzi d’arte.
Ora, lo sposalizio tra la rivista e l’arte dell’incisione si collocava in una feconda storia del primo Novecento. Nei primi trent’anni del secolo la xilografia visse infatti in Romagna un momento di singolare sviluppo. La prassi aveva precedenti in Italia, ma qui sorse un movimento artistico con una linea espressiva autonoma, la cui singolarità scaturiva dall’educazione visiva ricevuta nella terra d’origine, là dove gli apparati iconografici e cromatici dell’artigianato hanno caratteristiche uniche. «La Piê» si fondò insomma su una specializzazione territoriale, colse la domanda culturale che proveniva dal comune sentire e, oltre a donare agli incisori forte impulso, diventò per loro abituale sede di espressione.
Sorge spontaneo osservare che, quando giunse per Spallicci il momento di scegliere un segno grafico che esprimesse il senso della romagnolità, egli optò proprio per quello della xilografia, giudicata adatta a esprimere l’identità regionale. Il successo dell’idea fu legato ai soggetti incisi ma anche all’effetto di cruda schiettezza che la tecnica possiede. Non a caso Spallicci prediligeva i temi inerenti la terra e le sue creature, dal fiore di radicchio all’ulivo, dal vitello alle tante creature dell’aia: immagini la cui bucolicità è risolutamente espressa mediante la compattezza dell’incisione su legno. Fu la scoperta di una concezione visiva della regione affidata a una serie di simboli e tecniche di immagine che alludono a un comune sentire, quello che coglie nel linguaggio xilografico l’espressione dominante dell’animo tradizionale romagnolo.
Antonio Castronuovo
Ferrara e la Romagna Estense
Da Alfonso d’Este a Cavour, breve storia di una straordinaria terra di confine
Perché La Piê, una delle più antiche e apprezzate riviste letterarie, voce da quasi cent’anni di una regione ricca di tradizioni, storia e cultura come la Romagna, ha deciso di allargare i suoi orizzonti editoriali e di approdare in riva al Po?
E’ presto detto. Perché, anche se non si può forse sostenere – con pieno rigore scientifico – che quella ferrarese e quella romagnola siano per cultura, dialetti e tradizioni addirittura la stessa identica terra, non si può d’altra parte negare che entrambe siano comunque legate da uno stretto vincolo di parentela storica e geografica. E questo perché hanno in comune un ampio territorio di confine. Paesi, rocche, campi, fiumi e città fortificate, dall’antico Po di Primaro fino al Sillaro: il cuore pulsante della cosiddetta Romagna Estense.
Parte integrante per quasi 500 anni del Ducato e della provincia ferrarese la Romagna Estense ne ha del resto condiviso il destino, dall’annessione allo Stato della Chiesa, nel 1598, fino agli albori dell’unità nazionale. Sotto la Signoria d’Este l’intero territorio aveva goduto di una certa autonomia: amministrata da un governatore che aveva sede a Lugo, la Romagna estense includeva – nel momento della sua massima espansione – anche le terre bonificate di Alfonsine, spingendosi fino ai confini delle terre degli Sforza e dei Manfredi, di Bologna e della Legazione pontificia di Ravenna. Alcuni possedimenti erano strettamente “ferraresi” fin dal XIV secolo, ma la maggior parte di quella regione era stata assorbita dalla casa d’Este grazie alla spregiudicata politica espansionistica avviata dal marchese Nicolo III, tra il 1393 ed il 1441. Comprata o scambiata con enormi somme di danaro, quella parte della Romagna – da Lugo fino a Fusignano, Cotignola e Bagnacavallo – così importante strategicamente e politicamente per i duchi di Ferrara, era stata conquistata per gradi e a fasi alterne, sfruttando anche le eterne contese che, tra il Quattro ed il Cinquecento, avevano coinvolto il Ducato: dalle guerre con Venezia ed il Papato, fino all’epica battaglia di Ravenna, il giorno di Pasqua del 1512, quando le artiglierie di Alfonso I, alleato del re Luigi XII di Francia, avevano consentito agli Estensi di tornare in possesso di Lugo e degli altri paesi romagnoli.
Tra alti e bassi, la comunità romagnola segue così le fortune dei duchi ferraresi, ottenendo quasi sempre sicurezza e stabilità politica. Un legame forte, che per secoli è riuscito a restare in equilibrio tra i due poderosi poli d’attrazione: la capitale del Ducato a nord e le altre terre e Signorie della Romagna a sud.
Poi, la Storia e gli avventurosi anni del Risorgimento hanno fatto il loro corso. Ed i romagnoli hanno imboccato la loro strada, reclamando la loro indipendenza. In un Paese diviso tra mille campanili e da complesse ed intricate pretese di autonomia o di autosufficienza, com’era l’Italia a metà dell’Ottocento, si può facilmente immaginare quanto le indiscutibili differenze di storia e di cultura tra popolazioni ancora alla ricerca di una matrice nazionale, abbiano pesato nel processo di formazione del nuovo Stato sabaudo. Trent’anni dopo gli sfortunati Moti del 1831, che avevano visto affiorare per la prima volta una significativa spinta “separatista” da parte delle comunità romagnole ancora amministrate dall’antica capitale, il 7 dicembre 1859 anche l’ex legazione pontificia di Ferrara (con annesse le terre romagnole) passa sotto il Regno di Sardegna. In attesa del plebiscito destinato a sancire formalmente la nascita dello Stato risorgimentale, il governo piemontese decide infatti di riordinare la struttura politica ed amministrativa della regione, stabilendo i nuovi confini delle province nate dall’annessione.
Il compito – ironia della sorte – viene affidato proprio ad un romagnolo doc: il ravennate Luigi Carlo Farini, tanto energico quanto poco incline ai compromessi. Nominato da Cavour Dittatore delle province provvisorie, in neppure tre settimane Farini ridisegna il territorio regionale, seguendo principi di omogeneità e continuità legati all’impronta, forte e centralizzata, del nuovo Stato sabaudo.
La nuova mappa è pronta il 30 novembre 1859. Difficile dire quanto possano avere influito le origini romagnole del suo artefice, fattostà che a farne le spese è proprio Ferrara. La Romagna Estense, circa un quarto della popolazione dell’antico Ducato, si incammina definitivamente per la sua strada: Lugo, Cotignola, Fusignano, Bagnacavallo, Massalombarda, Conselice e Sant’Agata Ferrarese passano sotto Ravenna, come contropartita per la perdita di Imola passata a Bologna. In cambio, la nuova provincia ferrarese ottiene Poggio Renatico e Sant’Agostino, perdendo però anche Crevalcore e Finale Emilia, trasferite sotto Modena. Dopo cinquecento anni il Ducato viene così cancellato per sempre.
Ma oggi, se si vuole capire la Romagna, apprezzare la sua grande ricchezza storica ed umana, non si può tralasciare di studiare e comprendere anche la storia di una sua parte così importante come è quella estense. Ed i suoi legami – non solo geografici – con l’antica capitale in riva al Po. non certo un figlio “minore”, ma una terra amata e contesa, fiera ed indomita, che possiamo definire a pieno titolo sia ferrarese che romagnola.
Ed è proprio questo l’obiettivo che si è data La Piê, approdando con il suo fertile laboratorio di idee e di progetti, sotto le mura dei Duchi d’Este.
Andrea Ghisellini
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